INTER MORATTI THOHIR / MILANO – Coccodrilli a ‘babbo che lascia’ non ci va di farli. Perché in fondo il calcio di oggi è così, deve essere così. Prendere o lasciare. Moratti, dopo quasi diciannove anni di impero, ha scelto la seconda strada, con sofferenza ma con (seppur minima) convenienza. I debiti e i tempi che cambiano, e che corrono – con la fine del mecenatismo esasperato, fatto salve rare eccezioni -, hanno indotto e obbligato il petroliere ad alzare bandiera bianca, accontentandosi quasi delle briciole e, forse, della carica di presidente, che un buon amico certamente gli sconsiglierebbe di assumere. Ma oggi è soprattutto il giorno degli interisti, il giorno dell’inizio della nuova era targata Erick Thohir. Al magnate, faccia simpatica e furba – qualche giornalista italiano già se l’è tirato dietro al proprio mulino -, Massimo Moratti lascia un’Inter in disarmo, con una struttura dirigenziale eccessivamente ampia e confusionaria, dedita perlopiù al “sì, padrone”, la quale negli ultimi anni si è spesso resa protagonista di oscenità e fallimenti sportivi, ben impressi ancora nelle nostre menti. Sotto l’aspetto tecnico, una squadra povera e priva di un benché minimo fuoriclasse, oggi più di ieri fondamentale per vincere non solo sul campo. Sul piano economico, debiti verso banche e fornitori, e un bilancio talmente in rosso (da sempre) da non dormirci la notte: e che avrebbe fatto fallire aziende ‘normali’. Moratti è stato generoso, sognatore e tifoso estremo dell’Inter: merita un bel dieci per questo. Valutandolo come dirigente, primo fra tutti, assai meno dell’insufficienza. Con lui la beneamata è tornata grande come negli anni ’60, ma è anche sprofondata in una mediocrità gestionale finanziaria e tecnica gravissima, alla quale era necessario porre un freno. Anche straniero.
Raffaele Amato