SALUTO JAVIER ZANETTI / MILANO – Sono interista dal numero di anni che un neonato impiega per diventare maggiorenne, rampollo di una lunga stirpe di accaniti tifosi nerazzurri, malato di calcio come se non ci fosse un domani. Avere ventitré anni non è una gran cosa; non ne ho viste poi tante rispetto ad altri tifosi di vecchia data, di quelli che – ad esempio – hanno avuto la fortuna di conoscere Giacinto Facchetti anche per quanto fatto sul campo e non solo per lo straordinario uomo che è stato fino all’ultimo giorno della sua vita.
Fu Inter-Schalke 04, finale di Coppa UEFA, la prima partita che seguii dall’inizio alla fine, e non fu una gara particolarmente entusiasmante per noi nerazzurri. Segnò Zamorano, rimediando allo svantaggio maturato nella gara d’andata, ma poi finimmo ai rigori e Marc Wilmots spiazzò Pagliuca regalando la coppa ai tedeschi. Ci saremmo rifatti l’anno dopo, trascinati da un Ronaldo al suo primo anno in maglia nerazzurra… ma questa è un’altra storia.
A quei tempi, ovviamente, Javier Zanetti vestiva già la maglia dell’Inter e stava gradualmente diventando un beniamino del pubblico. Il ricordo del suo battibecco con Roy Hodgson appena prima dei rigori decisivi fa sorridere alla luce di quanto sarebbe poi avvenuto in seguito, anche perché l’anno successivo – con il tecnico inglese sostituito da Gigi Simoni – proprio un gran gol di Zanetti si sarebbe rivelato decisivo nella finale di Parigi, vinta 3-0 contro la Lazio. Squadra, quest’ultima, contro cui il nostro capitano di mille battaglie ha festeggiato anche ieri, dopo le lacrime di quel drammatico 5 maggio 2002; come se il destino, per una volta commosso e incline ad uno slancio di generosità ed affetto, avesse programmato per lui un’ultima sfida, un’ultima opportunità, contro una delle avversarie più significative della sua carriera. Quello che mi colpì allora, di Zanetti, fu l’umiltà con cui chiese scusa a chi aveva il dovere di prendere delle decisioni, giuste o sbagliate che fossero, condivise o meno. La stessa umiltà con cui, diciassette anni dopo, avrebbe accettato – seppur a malincuore – l’esclusione nel suo ultimo derby da calciatore laddove altri avrebbero fatto la voce grossa pur di scendere in campo, forti di un ego costruito nel corso degli anni e del sostegno quasi plebiscitario della tifoseria.
Ma il 1997 era anche l’anno in cui, alla corte di Massimo Moratti, arrivò un brasiliano, un certo Ronaldo Luís Nazário de Lima. Era un giocatore ricco di talento, un prestigiatore, quasi, e ci aveva già conquistati tutti prima ancora di scendere in campo. Io, marmocchio di sei anni, risentii della febbre e dell’entusiasmo e, dopo essermi procurato una sua maglietta, supplicai mia madre di rasarmi i capelli a zero perché volevo disperatamente assomigliare a “Ronaldo, quello del pallone”. Nell’ebbrezza dell’arrivo di Ronaldo, presentato in pompa magna e celebrato dagli interisti come fosse il Messia, fu facile dimenticarsi di Javier Zanetti: come avrebbe potuto ‘El Tractor’, lavoratore umile e onesto e silenzioso, competere con un fantasista esotico che trattava il pallone come se fosse un giocattolo telecomandato e mandava in visibilio le folle con numeri da fantascienza pura?
Ma la vita non è un film. Il finale è incerto, sempre in bilico, e forse è proprio per questo che storie come quella di Javier riescono a fare breccia nei cuori della gente. Trascorrendo una serata al cinema o leggendo un buon romanzo è facile imbattersi in una storia a lieto fine, di quelle in cui l’eroe umile riesce a superare ogni avversità per poi essere portato in trionfo da una folla festante, ma nella vita reale non è la stessa cosa. Non c’è un copione scritto; una storia è un castello di carte che va costruito con cura e pazienza e, nonostante tutta la fatica, potrebbe bastare un alito di vento per buttarlo giù, per far sì che trovi posto nel ricco archivio delle tante leggende nate ancor prima di cominciare. Negli ultimi anni abbiamo visto un figlio d’arte diventare beniamino del pubblico milanista, lo abbiamo rispettato per anni benché fosse nostro rivale, soltanto per poi vederlo umiliato dalla sua stessa tifoseria nel giorno dell’addio al calcio. Abbiamo visto un giocatore dal piede magico, bandiera storica della Juventus, acerrimo nemico ed autentico spauracchio per i nostri, venir spedito in Australia in malo modo perché ritenuto non più in grado di fare la sua parte.
E poi, nell’indimenticabile serata di ieri, abbiamo visto un argentino nato nei quartieri poveri di Buenos Aires prendersi l’affetto di San Siro, la Scala del Calcio, uno degli stadi più gloriosi d’Europa e non certo – con tutto rispetto, per carità – il San Nicola di Bari. Ha dato l’addio allo sport che ama, in un Paese che ormai è diventato per lui una seconda casa, quarantunenne in un fisico più giovane di dieci anni, osannato da settantamila persone giunte allo stadio solo per tributargli un ultimo saluto, per dirgli grazie. Lo abbiamo visto commosso per l’affetto della sua gente, lo abbiamo visto ringraziare suo padre e piangere al ricordo di sua madre, andata via troppo presto per poter essere presente in questa notte così importante. Lo abbiamo visto percorrere il campo un’ultima volta, con sua moglie Paula e i suoi figli, marito devoto e padre di famiglia affettuoso in un mondo di calciatori spesso abituati a far parlare di sé più per disavventure a luci rosse che non per quanto di buono fatto sul campo. Sono sempre stati lì per lui, tutti loro. Sono stati la sua forza; lo hanno accompagnato in ogni fase della sua vita, nelle gioie e nell’amarezza, e non sarebbero certo potuti mancare ieri. Lo abbiamo visto ergersi fiero, davanti al suo pubblico, interista vero: sarebbe potuto andare a Madrid per vestire la camiseta blanca del Real, con la possibilità di guadagnare più soldi e conquistare trofei in quantità industriale, ma scelse di restare all’Inter in un periodo in cui non si vinceva niente. Noi tifosi nerazzurri non credevamo più alla vittoria, ma lui sì. E quand’anche avesse avuto qualche dubbio, sua moglie Paula lo esortò a continuare sostenendo che il loro tempo a Milano sarebbe arrivato, prima o poi.
Tifoso dell’Indipendiente, da ragazzino si vide scartato ad un provino della sua squadra del cuore perché il suo fisico era troppo gracile. Con umiltà e senza far rumore, come sempre, accettò il verdetto e lasciò perdere i sogni di gloria. Se ne andò a lavorare in un cantiere con suo padre, e da muratore non era molto diverso dal calciatore che sarebbe diventato in seguito; amava il suo lavoro e visse quell’esperienza con entusiasmo e con la consapevolezza di potersi rendere utile.
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