Inter, Piero Ausilio ricorda i suoi inizi come dirigente e si ‘pente’ della cessione di Coutinho
INTER AUSILIO DICHIARAZIONI/ Prosegue l’intervista di Sky Sport, con il direttore sportivo nerazzurro Piero Ausilio. La lunga chiacchierata è continuata con i suoi inizi sportivi e il suo passaggio da calciatore a dirigente. Queste le sue delucidazioni: “Ho smesso da giovane, mi sono fatto male a un ginocchio a 16 anni alla Pro Sesto. Quando arrivò il momento mi arrivò una chiamata per fare l’allenatore e rifiutai la proposta da dirigente, poi dopo tre giorni a casa è partito il percorso da dirigente. Ci tenevo a raccontare questo episodio“. Gli hanno domandato se anche suo figlio farà il dirigente e lui ha detto: “Sì, lo sanno anche i procuratori. Mi ha fatto la testa così su Kluivert, non l’ho preso perché è stato più bravo Monchi, in quel momento ho pensato che non avrebbe avuto quello spazio all’Inter. Quello che piace a mio figlio è vedere le partite. Due dei giocatori di cui mi ha parlato li ho in testa, ma è meglio non fare nomi“. Gli hanno chiesto spiegazioni sulle cessioni per il fair play finanziario e lui ha spiegato: “Oggi non baratterei il fatto di avere uno o due giocatori in più in cambio dei titoli che hanno portato, magari anche attraverso il sacrificio di questi ragazzi, all’Inter.Su tutti penso a Bonucci: è stato sacrificato in un’operazione con il Genoa nell’estate 2009 che ha portato all’Inter Milito e Thiago Motta. E sappiamo cosa ha poi vinto l’Inter grazie a questi due giocatori. Mi auguro che tra qualche anno parleremo di Zaniolo come ho parlato prima di Bonucci: per prendere Nainggolan e vincere abbiamo dovuto sacrificare un ragazzo sicuramente di prospettiva”. Gli hanno domandato, quali siano state le cessioni sbagliate di mercato e lui ha detto: “Coutinho, in assoluto. Sarò sincero, in quel caso non è stato tanto un discorso economico. Infatti, appena venduto lui, acquistammo Kovacic ed Icardi. Sia io che Branca e tutta l’area tecnica dell’Inter avremmo tenuto il brasiliano per 20 anni, ma c’era un dato di fatto legato ai numeri: non giocava. E il calciatore ogni sei mesi veniva a dire che, giustamente, se ne voleva andare perché voleva giocare”.